Racconti Brevi - Colpi (Cibarsi dell'infanzia)

Prologo
Ci sono storie che colpiscono anche i più cinici, ci sono storie che servono per conoscere, ci sono storie che non devono più ripetersi. 

Francesco Sansone



Racconti Brevi



Colpi (Cibarsi dell'infanzia)


Quante parole sono abituato a sentire durante le mie giornate, il mio lavoro da consulente, me le impone. Di solito la gente viene da me perché vuole un aiuto, un suggerimento, una soluzione ai loro problemi e io, senza modestia, riesco sempre a trovare la parola giusta per soddisfare tutti i miei bisognosi clienti. Di parole ne sento tante, però ci sono giorni, come quello di oggi, in cui le parole entrano in me, spezzandomi il cuore. Ok voi direte, ecco il solito gay sensibile che si commuove alla prima storiella che gli viene detta, mi spiace per voi, ma io non sono uno di quelli che piange se la bella o il bello di turno muoiono in una fiction. Non sono uno sensibile, o quanto meno non nell’eccezione che ormai gli etero amano fare per disegnare un omosessuale anzi, a volte a dirittura penso che il mio cinismo mi porterà ad una vecchiaia in solitudine, ma questo è un altro discorso…




Dicevo che le parole che questa mattina mi sono ritrovato ad ascoltare mio malgrado, hanno lasciato il segno in me.



Come ogni mattina ero nel mio bell’ufficio che sembra più un porto di mare dato il numero di persone che vi entrano durante la settimana. Io ero seduto nella mai poltrone in pelle nera con doppia imbottitura che ho acquistato il mese scorso per festeggiare la promozione ricevuta dal capo, dopo anni in cui ho quasi venduto l’anima al diavolo per ottenere quello che ho oggi. Quindi ero seduto sula mia poltrona con me mani appoggiate sulla tastiera sulla cui battevo i tasti per completare una pratica e ogni tanto lanciavo uno sguardo allo specchio per vedere se il mio aspetto fosse perfetto, indossavo il mio nuovo abito in velluto nero, con una camicia nera e la cravatta viola, e poi mi sono concentrato sul viso, prima di arrivare in ufficio sono passato dal mio parrucchiere e ho cambiato completamente look. Ho tagliato i capelli neri, facendo un taglio a spazzola e ho deciso di modellare la barba. Con questo nuovo aspetto anche gli occhi verdi risaltavano sul viso. Ero perfetto. Stavo fissandomi ancora allo specchio, che ho sentito la voce del primo cliente del giorno e lasciando tutto quello che stavo facendo, mi sono alzato e mostrando il sorriso più ruffiano che riesco a sfoderare, l’ho accolto e l’ho invitato ad accomodarsi. Ha iniziato a parlare. “Che palle” pensava tra me e me, mentre quell’uomo mi parlava dei suoi problemi, che per me erano solo delle inutili questioni sbrigabili in tre secondi. A volte la gente credo che preferisca complicarsi la vita, giusto solo per non annoiarsi. Dopo quest’uomo, altre 10 persone hanno riscaldato con i loro culi, più o meno grossi, la poltroncina rosso mogano disposta di fronte alla mia scrivani. Mentre uno parlava pensavo proprio che era arrivato il momento di cambiare le due poltrone che di solito ricevono i culi delle persone. “Oggi è propria una rottura!” continuavo a ripetermi quando sentivo le paranoie di quelle persone. “Un altro cliente così e oggi mi ricoverano” ho detto sempre tra me e me, mentre il decimo cliente parlava. Questi è rimasto interdetto quando sì è reso conto che sul mio viso era spuntato un sorriso. Infatti mi era scappato di sorridere su una mia considerazione, ma sono stato abile ad riparare il tutto, giustificando quella smorfia sorridente sul mio viso dicendo all’uomo che era dovuto al fatto che ero riuscito a trovare subito la soluzione al suo dilemma e iniziai a spiegargli quale fosse la strategia che avremo seguito per ottenere ragione.



“Basta! Ho bisogno di un caffè!” mi sono detto quando ho salutato quest’ultimo cliente e così, mi sono chiuso la porta alle spalle, mentre un “Mi scusi”, è arrivato alle mie spalle.



- Sono in pausa. Torno fra 5 minuti - ho detto girandomi, ma quando mi sono trovato di fronte quello sguardo, mi sono zittito. Era un ragazzo di circa 30 anni, vestito di sano punto, seppure nel suo viso ci fossero i segni di stanchezza evidenziati da due cerchi sotto gli occhi che toglievano luce a quei occhi castano chiaro con sfumature sul verde. Un bel giovane, e io me ne intendo di bei ragazzi, di solito non me ne faccio scappare neppure io tanto che i miei amici mi chiamano “l’asso piglia tutto”.



- Mi scusi, non pensavo che…



- Se ha un bisogno urgente, rimando la pausa.



- No, no. Faccia con comodo – Il tono con cui lo disse, mi ha lasciato ancora una volta spiazzato. Pacato ed educato, difficile da trovare nelle persone quando vedono che “il signore se la prende comoda”.



- Ė sicuro?



- Sì! Vada non voglio farle perdere altro tempo, altrimenti tutti gli altri poi mi accusano di farle perdere altro tempo – mi ha risposto con un sorriso di circostanza, seppur sincero, ma che non è riuscito a modificare la sua espressione sofferente, addolorata, triste. Parlava, ma si vedeva che la sua mente fosse altrove.



- D’accordo faccio in fretta – e detto questo, sono andato dal mio collega chiedendogli se volesse fare una pausa e alla sua risposta affermativa, ci siamo diretti al bar. Per strada ho acceso una sigaretta. Il mio collega era più esasperato di me. Erano passate solo tre ore dall’inizio della giornata lavorativa, e già era esaurito, anche a causa di una vecchia che lo ha tormentato con una pratica che si poteva risolvere in tre minuti, ma che colpa della cliente, il mio collega si portava avanti da circa un mese. Tuttavia, benché il mio amico mi parlasse e la sigaretta mi inebriava con il suo sapore, non riuscivo a distogliere il pensiero dal mio prossimo cliente. Bevuto in fretta il mio caffè e fumata in un lampo la seconda sigaretta, sono tornato in ufficio.



- Mi scusi per averla fatta aspettare.



- Non si preoccupi, sono stati 5 minuti contati.



- Prego, si accomodi.



- Grazie – entrati in ufficio, gli ho fatto gesto di accomodarsi sulla poltroncina rosso mogano e quando pure io fui seduto, gli ho chiesto di espormi il suo problema. A differenza degli altri clienti avuti durante la mattina, e forse anche di tutti gli altri in generale, mi sono apprestato ad ascoltarlo senza supponenza né arroganza.



- Mi dica cosa posso fare per lei?



- Sin da piccolo non ho avuto una vita facile, anzi ho sempre vissuto una vita senza luce, una vita sotto voce per paura di dare un motivo per punirmi.



- Chi la puniva?



- Pensi che a volte per distogliere i sospetti che fosse lui a farmi tutti quei lividi, davanti ai miei amici, ma anche di fronte la insegnati, facevo cose spericolate, procurandomi altri segni in modo da far credere che tutti i graffi che sul mio corpo erano presenti, fossero dovuti dalla mia irruenza, dal mio essere spregiudicato.



- Quali segni?



- Ancora adesso fingo di dimenticare tutta la mia vita. Sì, tutta la mia vita. Solo oggi dopo 24 anni ho trovato il coraggio per parlare, per dire tutto, per gridare, per non soffocare più nulla, vivere un raggio di sole, di vivere un giorno senza paura di essere vittima di lui?



- Si spieghi meglio, non riesco ad aiutarla se non mi spiega bene tutto quanto – a quelle mie parole, sul suo viso, sembrò essersi spaccato qualcosa. Una sorta di maschera che racchiudeva tutta una vita tracciata dalla ricerca continua di un rifugio dove far vivere le speranze.



- Avevo sette anni quando, una notte, mio padre venne da me dicendomi che avrebbe dovuto punirmi. Eravamo solo io e lui in casa, mia madre era a lavoro. Era l’unica che lavorava in famiglia prestando servizio presso una ricca famiglia. Lui è sempre stato un lavativo. Non ha mai saputo tenersi un lavoro per più di un mese e tutti i soldi guadagnati li spendeva in vino la sera al bar oppure giocando a carte con gli amici, altri lavativi come lui.



- Quel pomeriggio, io ero in camera mia che studiavo, avevo si e no undici anni, da poco mi erano spuntati i peli pubici e non sapevo neppure cosa fosse masturbarsi, anche se in quel pomeriggio venni a conoscenza di cosa può fare un pene oltre ad urinare. Si avvicinò a me dicendomi che mi doveva punire perché i suoi amici mi avevano visto che giocavo troppo intimamente con un mio amico. Cosa voleva dire troppo intimamente poi non riesco ancora a capirlo, dato che fino a quell’istante la malizia non faceva parte della mia vita. Ero un ragazzino, anzi ero ancora un bambino. Si avvicinò. Mi abbassò i pantaloni, lasciandomi solo con le mutande. Mi mise a cavalcioni sulle sue gambe. Colpi forte con la mano. Una volta. Due volte. Tre volte. Lo faceva mentre diceva “queste cose non si fanno”, inutile dirle che io gridavo dicendogli che non era vero nulla. Quattro colpi. Cinque colpi. Sei colpi. Continuava gridando “se ti vedo io, giuro che ti ammazzo” e io che lo supplicavo di lasciarmi perché non era vero nulla. Smise di colpire. Mi alzò. Si alzò. Mi stringeva per un braccio. “Se proprio vuoi fare queste porcate, falle con me”, si abbassò i pantaloni. Gli slip. Tirò fuori il suo membro in piena erezione. Non volevo. Cercavo di sfuggire alla sua presa, ma senza riuscirci. Mi fece abbassare e con un gesto villano violò la mai bocca innocente. Non era contento tuttavia e decise che dovevo ancora essere punito. Mi gettò sul letto. Mi strappo le mutande e ancora una volta con un gesto villano violò il mio corpo puro.



- In quel momento smisi di essere un bambino e divenni... non so come definirmi. So solo che quelle punizioni ripresero il giorno dopo e non si sono mai concluse. Ogni motivo più o meno valido, più o meno vero, era buono per cibarsi della mia innocenza, della mia paura, della mia vergogna. Ho passato tanti anni in trappola.



- Ma mai nessuno s’è accorto di nulla?



- Non permettevo che esso avvenisse. Sarebbe stato peggio. Pensi che abusava di me anche solo se aveva il sospetto che avessi detto qualcosa a qualcuno.



- Come riusciva a pensare questo?



- Non lo so! Forse perché quando era bevuto era più volubile che mai.



- E come mai s’è deciso di parlarne solo ora?



- Perché credo che voglia fare le stesse cose con il mio nipotino. La prego mi aiuti.



Quelle parole mi spezzarono il cuore. Ora capivo cosa c’era dietro quel viso. Un dolore, una paura, una rabbia, una tristezza, ma soprattutto la voglia di evitare che una nuova vita innocente fosse perduta. Da quel momento mi sono messo all’attivo per cercare di bloccare quel mostro. Basta poco per fermare un mostro, una semplice denuncia ai carabinieri o alla polizia, anche solo se sia il sospetto. Solo così si possono bloccare porci che addirittura si riuniscono insieme nella giornata mondiale dell’orgoglio pedofilo. In questi casi anche i più cinici come me possono mettere da parte il loro mondo per garantire un mondo sano ai bambini.