Monica Cirinnà parla di diritti civili: «l’Italia sarà un paese civile quando avremo il matrimonio egualitario»

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A cura di Francesco Sansone
Grafica di Giovanni Trapani
In un’intervista rilasciata a Il Fatto Quotidiano, per parlare del suo nuovo libro L’Italia che non c’era. Unioni civili: la dura battaglia per una legge storica,  la senatrice Monica Cirinnà è tornata a parlare della legge che porta il suo nome, e che ha consentito alle coppie omosessuali di veder riconosciuto il loro amore davanti allo stato.
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La Cirinnà, che si augura che questa legge venga superata da una che riconosca i matrimoni gay, ha detto che  «L’Italia sarà un paese civile quando avremo il matrimonio egualitario, l’adozione e la responsabilità genitoriale sin dalla nascita dei figli per tutti i tipi di coppie, etero e omosessuali.»

Un traguardo che sembra difficile, considerando anche gli emendamenti contro la legge che portava il suo nome, presentati anche da alcuni esponenti della grande maggioranza che formava il governo Renzi. È la stessa senatrice che ha parlato dell’alleanza con Area Popolare – coalizione formata dal NcD di Angelino Alfano e UDC -  e degli ostacoli che ha posto sul cammino della legge:
«Gli emendamenti di AP sono stati davvero tanti e, pur essendo in maggioranza con noi, hanno cercato in tutti i modi di bloccare la legge.» ha detto la Cirinnà, prima di parlare di una nuova alleanza con Alfano e company. «Il futuro ella nostra alleanza dipenderà molto dalla legge elettorale. Vedremo come andrà. Ma è sicuramente un’alleanza scomoda per chi come me si occupa di diritti umani. Su questo tema e su altri, come la procreazione assistita, gli alfanini e gli altri ‘cavalieri medievali’ hanno una visione decisamente oscurantista. Diciamo che questa alleanza un letto con molti spilli in cui si è costretti a dormire.»
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La senatrice, infine, è tornata a parlare anche del voltafaccia del Movimento 5 stelle, affermando come si sia sentita ferita, perché crede fermamente nella correttezza dei rapporti personali.

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Coppia gay insultata, picchiata e derubata da 7 ragazzi a Bari. VIDEO

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A cura di Francesco Sansone
Grafica di Giovanni Trapani
Un trentenne barese e il suo compagno spagnolo, in vacanza in Puglia, lo scorso 8 giugno, intono alle 19:30, sono stati insultati, picchiati e poi rapinati  a Bari da 7 ragazzi  fra i 17 e i 20 anni.
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Secondo a quanto ha riportato dal pm Bruna Manganelli, che fa capo alla Squadra Mobile di Bari, le due vittime, all’uscita da un locale di largo Adua, sono state raggiunte dal branco, che ha iniziato a insultarli per la loro omosessualità. In seguito gli aggressori sono passati alla violenza fisica, colpendoli con calci e pugni, e al furto di due collanine e un anello, che indossati dalla coppia.

Valentina Vigliarolo, presidente di Arcigay Bari,  ha commentato quanto accaduto alla coppia, esprimendo la sua preoccupazione per la giovane età degli aggressori e la mancata tutela da parte dello Stato, che non ha ancora emanato la legge contro i l’omofobia, ferma al Senato da 4 anni:

«Quello che più ci spaventa è la giovanissima età degli aggressori, dovuta secondo noi ai movimenti d’odio che si stanno diffondendo negli ultimi anni. Noi chiediamo ai ragazzi gay di esporsi, di fare coming out, di denunciare quando sono vittime di discriminazioni e violenze e questo non sempre è scontato perché significa metterci la faccia. Ma lo Stato poi non ci protegge, considerando le violenze per omofobia al pari delle altre. L’aggressione di una coppia omosessuale è un’aggressione d’odio. Per questo chiediamo da anni una legge nazionale che abbia valore punitivo nei confronti di queste forme di aggressioni.»
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Attraverso alle immagini che la Polizia di Bari ha acquisito da alcune telecamere di sorveglianza, poste sulla strada – e che potrete vedere di seguito -, la polizia è riuscita a identificare alcuni dei 7 aggressori. Se il diciassettenne continua a essere a piede libero, sebbene indagato dalla Procura per i minorenni di Bari, due maggiorenni sono stati arrestati e condotti in carcere, dove nei prossimi giorni saranno sottoposti all'interrogatorio del gip. Le indagini, tuttavia, sono ancora in corso, al fine d'identificare gli altri quattro ragazzi del branco.
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Per cinque anni giovane vittima di omofobia a lavoro: «Credo che le persone che mi hanno fatto del male non siano consapevoli di aver sbagliato.»

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A cura di Francesco Sansone
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Per cinque anni un ragazzo di Perugia, che ai tempi dell’accaduto aveva 21 anni, ha subito ogni sorta di insulto omofobo dai colleghi con cui condivideva le giornate lavorative. Per cinque anni il ragazzo si è visto preso in giro con quei dispregiativi usati per i gay e con gesti della mano che con cui mimavano movenze femminili. Inoltre, dopo che scoppiò il caso Piero Marrazzo, che vide il giornalista e ex Presidente della Regione Lazio al centro delle cronache per e sue frequentazioni con donne transessuali, si è sentito chiamare Brenda.
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Dopo la conclusione delle indagini per stalking, aperte in seguito alla denuncia sporta dal protagonista, il ragazzo ha risposto a un’intervista a LaNanazione.it, ricordando quel periodo brutto della sua vita.

«Tutte le mattine – ha detto il protagonista della vicenda – sul posto di lavoro venivo deriso per il mio orientamento sessuale. C’era chi mimava movenze effeminate con il corpo, con la mano e con il bacino. E poi mi offendevano con i soliti dispregiativi che si usano purtroppo per gli omosessuali. Dopo il caso Marazzo mi chiava mano Brenda.»

Le uniche persone che hanno preso le difese del giovane sono state due colleghe, ma che non sono riuscite a porre fine a quegli sfottò:
«Solo uno però smise di prendermi in giro, tutti gli altri continuarono a farlo. – ha continuato il ragazzo – Il responsabile era loro complice. Questo è stato un altro motivo del mio silenzio, avevo paura delle ripercussioni. Uno dei miei superiori mi fece anche delle avance sessuali.»

L’ambiente ostile ha provocato nel giovane diversi problemi a livello psicologico e fisico, che hanno compromesso anche la sua attenzione nel lavoro, fino a causarne il licenziamento.
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Il ragazzo ancora adesso continua a stare male e confessa che se si dovesse andare a processo per lui non sarà facile da affrontare, dato che nessuno dei suoi ex colleghi si è mai scusato con lui, anzi:

«Dopo la denuncia c’è stato chi ha negato tutto, perfino le offese verbali. Qualcun altro ha anche iniziato a darmi del matto. Credo che le persone che mi hanno fatto del male non siano consapevoli di aver sbagliato. Non credo che ammetteranno mai nulla, piuttosto cercheranno di difendersi.»
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Teodora Film chiarisce quel “Ve lo meritate Adinolfi”

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A cura di Francesco Sansone
Grafica di Giovanni Trapani
Tutte le sale in cui è disponibile il film
Ieri Teodora Film, dal suo account Twitter ha pubblicato un tweet amareggiato contro lo scarso riscontro che sta avendo nei cinema italiani il film 120 battitial minuto, uscito lo scorso 5 ottobre soltanto in 40 sale. Il testo del cinguettio era: Fiasco in Italia per #120BattitiAlMinuto che nel mondo riempie le sale: e anche la comunità LGBT diserta il film. Ve lo meritate Adinolfi


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Un testo forte se volete, ma che a me personalmente ha fatto capire la frustrazione e anche l’amarezza nel non vedere un riscontro sperato verso un progetto a cui si tiene fortemente. Non prendiamoci in giro, chiunque lavora spera di ottenere i risultati sperati, rimanendoci rimane male quando ciò non avviene. Ciò capita nell’industria del cinema come in qualsiasi altro campo. Tuttavia quel “Ve lo meritati Adinolfi”, che a me ha ricordato Rocco Papaleo nel film Nessuno mi può giudicare, quando grida “Te lo meriti Nanni Moretti” e a sua volta ha ricordato quest’ultimo quando nel film Ecce Bombo dice “Te lo meriti Alberto Soldi”, non è piaciuto a tutti. Ognuno ha il diritto di interpretare le parole come meglio crede e sentirsi amareggiato o arrabbiato quanto , quando e come vuole. 

Ed è quello che è successo con il tweet della Teodora Film, tanto da diventare un argomento di discussione su siti, blog e quotidiani. Vista la dimensione che quella frase ha avuto, il team della casa di distribuzione cinematografica ha voluto pubblicare una lettera aperta con cui spiegare ciò che nei 140 caratteri consentiti da Twitter non si è capito o non è stato espresso  per bene.

«Il tweet di ieri ha sollevato un vespaio, per questo sentiamo il bisogno di scrivervi – stavolta senza il limite dei 140 caratteri – per spiegarci meglio. Per sgombrare il campo (ma non per rinfocolare la polemica) cominciamo col dire ciò che questo messaggio NON è: non è una lettera di scuse. Come molti hanno sottolineato, 120 Battiti Al Minuto è un film orgogliosamente militante, uno sguardo dall’interno sul movimento di Act Up Paris. Ci sembrano due punti importanti: perché noi quella militanza l’abbiamo sposata, acquistando il film e riversando sulla sua uscita un investimento emotivo forse senza precedenti nella nostra storia. I due fondatori di Teodora sono, infatti, gay: “Cosa c’entra?“, diranno i più critici… c’entra proprio per questo: mai come stavolta la distribuzione di un film, anche al di là delle sue qualità estetiche (per noi 120 Battiti Al Minuto è un film bellissimo, sia chiaro), ci è sembrato fosse un atto politico. Lo sguardo del regista su Act Up è anche il nostro su un capitolo della nostra storia. Che è – a rischio di sembrarvi retorici – un capitolo insieme esaltante e doloroso, fatto di battaglie vinte e di persone che non ci sono più, di gente che ha combattuto anche per chi allora era distratto, o non c’era ancora. Per la comunità, insomma, e noi ci sentiamo parte della comunità LGBT italiana: ed è proprio in virtù di questa appartenenza che a volte ci sentiamo in diritto di criticarla, di criticarci. Dall’interno, appunto: come accade da sempre nella vita politica, magari quando si perde alle elezioni, o al referendum, per “colpa” di qualche astenuto di troppo. Ma che c’entra la politica con il cinema? In fondo stiamo solo parlando di un film: ecco, no. Stavolta, per noi, non era – non è – solo un film: stavolta, come membri della comunità LGBT, crediamo che vedere 120 Battiti Al Minuto sia (anche) un atto politico, di riappropriazione di una pagina importante della nostra Storia collettiva, che ci ha permesso di essere ciò che siamo oggi.
Questo non vuol dire, come è stato obiettato da alcuni, ghettizzare il film: siamo felici che tanti eterosessuali lo stiano vedendo, da una parte perché crediamo che il grado di civiltà di una società si misuri anche dalla condivisione delle tragedie altrui, e dall’altra perché l’Aids non è una tragica esclusiva del mondo omosessuale, come per tanto tempo si è cercato di far credere all’opinione pubblica. Questo però non ci deve far dimenticare che, complice il silenzio e il disinteresse di troppi, il debito di sangue pagato all’Aids dalla comunità LGBT è stato a lungo il più alto. Per questo immaginavamo un’attenzione “speciale”, non certo perché pensiamo che l’Aids riguardi soltanto noi.»
A questo punto il team di Teodora Film si focalizza proprio sulla frase incriminata, chiarendone il senso – e confermando a me ciò che avevo intuito, ma questo è irrilevante – e l’ironia che racchiudeva:
«Molti ci hanno rimproverato in particolare quella frase, “Ve lo meritate Adinolfi”, che voleva essere in primis un calco del celebre – e all’epoca contestato – “Te lo meriti Alberto Sordi” di Nanni Moretti. Ci dispiace che l’impersonalità di Twitter non abbia permesso di cogliere la sfumatura ironica. Su una cosa, però, non vogliamo che passi neanche l’ombra dell’ironia: nessuno, qui, si è mai sognato di augurare attacchi omofobi o discriminazioni a chicchessia. Anche qui, però, ci sembra che si siano tirate le somme troppo frettolosamente: quante volte, nei decenni scorsi, abbiamo sentito uomini politici, intellettuali, comuni cittadini, lasciarsi andare ad un sonoro, liberatorio, “e allora ve lo meritate (aggiungete voi chi preferite: Berlusconi, Monti, D’Alema)”. È una formula volutamente provocatoria, da dibattito politico, che tira in ballo di volta in volta “l’avversario” di turno: caricarla di significati che da politici (“secondo noi, in quanto membri della comunità LGBT, sarebbe stato politicamente importante che una fetta molto più numerosa della comunità vedesse il film“) diventano personali (“ciascuno dei gay che non ha visto il film si merita l’attacco dell’Adinolfi di turno“) non rispecchia in alcun modo il nostro pensiero.» Qui la lettera completa di Teodora Film
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Ora, posto che a volte le frasi non arrivano con l’intento con cui sono dette e che degli scivoloni involontari posso capitare, credo che questa polemica – legittima o meno non sta a me dirlo – non debba mettere in discussione il valore di 120 battiti al minuto o il suo messaggio. A volte queste cose capitano e bisogna superarle. In fondo viviamo in un paese dove anche i Marco Predolin continuano ad avere una seconda e anche una terza possibilità, pur avendo avuto comportamenti e parole ben più pesanti e offensive. Ciò che conta è che, seppur attraverso una frase "infelice", il film possa trovare un nuovo seguito e magari una maggiore distribuzione nei cinema.
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