Porfirio Rubirosa: « con “L’omino biscottino” volevo raccontare la verità senza filtri.»
In occasione della Giornata internazionale dei diritti degli animali (che si celebra il 10 dicembre) è uscito “L’omino biscottino", il nuovo singolo di Porfirio Rubirosa and His Band.
La canzone si presenta soltanto in apparenza a tema natalizio, poiché sebbene il racconto si apra con la triste storia dell’Omino biscottino – sulla falsa riga di quella narrata nel film Shrek 2 – alla fine si conclude in maniera totalmente inaspettata e spiazzante, lanciando un messaggio da cogliere tra le righe.
Il brano è tratto
da “Breviario
di teologia dadaista”, album distribuito da Isola Tobia
Label in collaborazione con Esibirsi –
Multiservizi per artisti dello spettacolo,
che il cantautore veneziano ha realizzato insieme alla sua band composta da
Drugo Arcureo, Pastafarian Andyman, IndiAnanas Jones e Krugerpritz e ad altri
musicisti di rilievo.
Il videoclip de “L’omino
di biscottino”, così come il brano, ha una conclusione altrettanto imprevista e
piuttosto forte, che potrete vedere sul canale youtube ufficiale.
L'intervista
D. Il tuo nuovo
singolo “L’omino biscottino” è un
brano che in apparenza si presenta a
tema natalizio, per concludersi in maniera totalmente inaspettata e spiazzante.
Da cosa nasce questa decisione?
R. “L’Omino
biscottino” è una falsa pista. L’uomo di marzapane e la sua triste storia
servono soltanto a far abbassare la guardia al pubblico. A rassicurarlo, in una
atmosfera, finta, di natale edulcorato. Ma alla fine del pezzo, quando ormai
non ci sono più difese, quando sembra che tutto debba andare come ci si
aspetta, il brano sferra un diretto micidiale allo stomaco. Testo e immagini
finali raccontano tutt’altro. E sono cose brutte, terribili da vedere. Ma sono
cose vere. E io volevo raccontare la verità senza filtri. Come d’altra parte
cerco di fare in tutto l’album.
D. Parlando del
brano hai detto che non ti interessava creare uno shock fine a sé stesso, bensì
aprire nell’ascoltatore una riflessione sul suo messaggio. A questo punto non
posso non chiederti: quanto è importante per te trasmettere messaggi attraverso
la musica?
R. Le canzoni altro
non sono che occasioni. E le occasioni, come accade nella vita, purtroppo non
sono infinite. Crescendo ho capito che non potevo più permettermi di perdere
occasioni. Non potevo rischiare di “buttare” pezzi, senza dire nulla.
Senza raccontare niente. Allora ho capito che i miei brani avrebbero dovuto
essere sempre latori di un significato, di un messaggio, di un’idea. Senza cui
non avrebbero nemmeno avuto senso di esistere.
D. Qual è stata la
canzone che più di altre ti ha aperto un mondo e spinto a cambiare
comportamento?
R. Ascolto molti
cantautori. Italiani e stranieri. Devo moltissimo a Piero Ciampi e a Bob Dylan.
Da brani come “Livorno” del primo, e “Visions of Johanna“ del
secondo ho imparato a raccontare per immagini. Ma soprattutto, mi hanno
insegnato che in una canzone occorre scavare, e non si può rimanere in
superficie.
D. “L’omino
biscottino” è l’ultimo estratto del tuo album “Breviario di teologia dadaista”. Attraverso
i 12 brani contenuti in esso, racconti la storia dell’uomo e del suo
progressivo annullamento consumistico. Cosa non ti piace della società attuale
e come agiresti per cambiarlo o farlo cambiare?
R. L’uomo è già
morto. “Siamo tutti morti, siam cadaveri ambulanti, e anche se non lo
diciamo, lo sappiamo tutti quanti”. Quella attuale è una società tecnogena,
destinata a soccombere. Un mondo nel quale confondiamo il concetto di benessere
con quello di comodità è un mondo senza futuro. E soprattutto, è una società
totalmente omologata e così fortemente irregimentata in regole e consuetudini
consumistiche, che le tristi previsioni degli anni ’70 di Pasolini hanno, purtroppo, trovato la loro conferma. Per cambiare
il mondo, se ancora è possibile, sarebbe importante cambiare sé stessi, a
partire da una maggiore e migliore consapevolezza del proprio io e del proprio
ruolo nella società. Se la regola fosse quella che occorre abbandonare, si
spera il più tardi possibile, questa Terra lasciando alla Terra stessa più cose
di quelle che dalla Terra stessa abbiamo preso, allora forse una speranza ci
sarebbe. Credo comunque che sia ormai davvero troppo tardi.
D. Nell’album
affronti le paure, le
debolezze, l’autoindulgenza e, soprattutto, l’autoassoluzione sbrigativa
dell’uomo contemporaneo. Quali credi siano le paure maggiori che tutti noi
viviamo oggi e quelle debolezze che abbiamo difficoltà ad ammettere?
R. Abbiamo
paura di fare scelte autonome e anticonformiste per il timore di essere
avvertiti dagli altri come diversi. In un mio pezzo dell’album scrivo che “le
pecorelle sembrano lupi quando sono in gregge”. Ma questo è proprio ciò che
vuole il Sistema. Dove per Sistema non mi riferisco a concetti piuttosto
impalpabili come “Nuovo Ordine Mondiale” o “Deep State”. Mi
riferisco a quell’enorme flusso sociale e di (scarsa) coscienza collettiva che,
come un fiume, ci spinge tutti nella medesima direzione, senza possibilità di
prendere una direzione diversa e contraria.
D. Il quadro
che fai dell’essere umano di oggi, credi sia dipeso anche da come i social
media hanno trasformato il nostro modo di rapportarci e mostrarci agli altri?
R. I social
media hanno favorito il concetto di aggregazione collettiva. Attorno ad
un’idea, ad un fatto, ad una posizione. Il problema è che, però, queste idee
sono quasi sempre frutti sbrigativi della sottocultura, dove per sottocultura
intendo la generica informazione che le persone, frettolosamente tanto quanto
comodamente, apprendono con sistemi user friendly come Wikipedia. Senza fatica.
Senza introspezione. Senza reale comprensione. Ancora una volta, cioè, si fa
confusione. Tra informazione (corretta o meno che sia) e cultura, che, come
dice il mio amico Roberto Menardo, altro non è se non la somma di tutte
le conoscenze del mondo.
D. Questo è il
tuo quarto album e dato che abbiamo parlato dei cambiamenti della società, ti
voglio chiedere: com’è cambiato il mercato discografico rispetto al tuo primo
disco?
R. Le regole
ora le fa il mercato. I pezzi devono essere brevi, perché lo streaming paga
solo per le canzoni ascoltate fino alla fine. Gli album stanno scomparendo,
perché alla gente piace ascoltare a spizzichi e bocconi. Soprattutto, e più di
tutto, il mercato oggi sfrutta la grande debolezza degli artisti. La vanità. In
questo senso, follower, like, visualizzazioni altro non sono se non volgare
vanità, che dura il tempo di un battito di ciglia. E che nei musicisti hanno
fortissima presa.
Il mercato e le sue regole hanno progressivamente
messo nel mirino vari settori, piegandoli alle proprie esigenze. Lo hanno fatto
con il commercio al dettaglio. Lo hanno fatto con la musica. Ora hanno deciso
di farlo con la ristorazione e con il cinema.
D. Era più
facile imporsi prima sul mercato o oggi ,
dove i social permettono di arrivare ai più velocemente?
R. Il fatto è
che a me di arrivare velocemente non interessa. Al punto che ho deciso di non
pubblicare digitalmente il mio intero album. Non mi interessa il grande
pubblico occasionale che occasionalmente ascolta qualche mia canzone. Mi
interessa solo la mia piccola comunità dadaista, con la quale mi confronto, ho
un rapporto diretto e biunivoco, e con cui sto bene. Ma non sto dicendo nulla
di reazionario. Tutt’altro. A mio parere il futuro è proprio in scelte come la
mia. Il futuro non sono i numeri. Sono i nomi.
D. Per
concludere, questo 2020 ci ha privato di molte cose, fra cui i concerti live,
per restare in tema musicale Se dovessi dire un buon proposito per l’anno
nuovo, quale sarebbe?
R. Il mio proposito
è quello che si trova sul dorso della confezione del mio ultimo disco
“Breviario di Teologia Dadaista”, sintetizzabile in 4 “S”: Svegliarsi,
Sobillare, Smascherare e (tornare a dormire per) Sognare.
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