Dopotutto sono ancora qui 1^ parte

Rubrica: Francesco Sansone
Grafica: Giovanni Trapani
Capita, purtroppo troppo spesso, che i piani non vadano mai come li avevi organizzati e così una vacanza, che in sé racchiudeva la voglia di ritornare nella propria città natale in maniera stabile, si trasformi in un lungo soggiorno in ospedale. Già questo potrebbe servire a farvi dire: “che sfiga!”, ma dato che al peggio non c’è mai fine, vi dico che la mia permanenza nella struttura ospedaliera non è iniziata proprio sotto una buona stella, anzi…


Era la sera di venerdì 20 giugno quando, tramite un’ambulanza, arrivo al pronto soccorso del Buccheri la Ferla. Dolore lancinanti mi piegavano in due e l’addome s’era talmente irrigidito che ogni movimento mi era impossibile da compiere. Entrato nella saletta del medico - che quella sera era occupata da una dottoressa dalla carnagione abbronzata e dall'atteggiamento scostante -, mi vengono sottoposte le domande di rito – tra cui la classica: “ha assunto droghe?” - con una freddezza che veniva soppiantata solo dalla bassa temperatura presente in sala. Dopo una prima visita, vengo spedito in radiologia per sottopormi a un'ecografia e successivamente a un RX.
I risultati che vengono fuori dagli esami non dimostrano alcuna anomalia. Vengo rispedito al pronto soccorso e la dottoressa mi dice che non avendo nulla, potevo andare a casa. I dolori, però, persistevano e l’addome continuava a essere rigido.

Come era possibile che non ci fosse nulla che non andasse?

In quel momento iniziarono le discussioni. Dovete sapere che non sono uno di quei tizi che al primo segnale corrono all'ospedale o dal medico, anzi. Più posso evitare certi luoghi e certi individui, più ne sono contento. Quella sera, però, stavo davvero male e non avevo intenzione di tornarmene a casa sapendo che qualcosa non andava e col rischio che le condizioni potessero peggiorare.

Data l’insistenza mia e del mio compagno, la dottoressa chiama due colleghi, una di medicina e uno di urologia, per un consulto.

L’urologo, dopo aver effettuato un esame rettale – per chi non lo sapesse significa che mi ha infilato un dito su per il culo – e pur sapendo che da tre giorni, pur continuando a mangiare regolarmente, non canalizzavo in alcun modo, mi mostra il dito dicendomi, con aria strafottente e canzonatoria, che tutto andava bene. La stessa identica cosa mi è stata ripetuta dalla dottoressa di medicina che attribuiva il mio irrigidimento addominale a un atto volontario e che il mio dolore era dettato dalla paura del momento.
Insomma, fra domande iniziali e loro personali pareri quello che è uscito fuori di me è stato un quadro che mi dipingeva come un drogato visionario andato lì a trascorrere un venerdì sera come un altro in cerca di ottenere chissà che cosa da loro. A me, però, quest’immagine non piaceva anche perché non rispecchiava la realtà e ho preteso che la smettessero di sostenere che non avessi nulla. “Se dico che sto male, significa che c’è un qualcosa che in questo momento mi sta provocando dolore, ma se per voi non è nulla, rilasciatemi un foglio in cui vi assumete la responsabilità delle vostre diagnosi e delle mie dimissioni.” ho detto infine esasperato dai loro risolini e dalle occhiatine che i tre si lanciavano costantemente. Quelle parole, chissà per quale motivo – è ironico, spero sia chiaro -, hanno fatto sì che sui loro volti le espressioni beffarde finissero.
“Io non firmo nulla.” ha tuonato la dottoressa dalla carnagione abbronzata e dall'atteggiamento scostante. 

Vengo trasferito nella saletta accanto e lì rimango per tutta la notte sotto l’indifferenza della dottoressa che, quelle poche volte che entrava a dare un’occhiata generale ai degenti, nemmeno si degnava di controllarmi perché, come ha detto al mio compagno, quella era “la terapia che ho scelto di intraprendere con lui. Guardarlo e non toccarlo.” Intanto la temperatura corporea aumentava e nel giro di poche ore il termometro era arrivato a toccare i trentotto gradi e mezzo.

Il mattino seguente – anche se per me era ancora lo stesso giorno – la dottoressa dalla carnagione abbronzata e dall'atteggiamento scostante ha terminato il suo turno ed è stata sostituita da un altro medico, il cui nome rievocava alla mente uno dei personaggi Disney, che mi ha visitato nuovamente e, pur credendo che fossi io a contrarre l’addome, chiede il mio ricovero nel reparto di medicina per via della febbre che da diverse ore non accennava a diminuire. Arrivato in reparto, vengo letteralmente ignorato per due giorni dai medici. Infatti, dopo le domande iniziali per completare la cartella di ricovero, nemmeno un dottore s’è fatto vivo per tutto il week end.

Sono circa le dieci o giù di lì di lunedì 23 Giugno quando ho il piacere di riparlare con un medico e ironia della sorte vuole che questi sia la dottoressa chiamata per un consulto mentre mi trovavo al pronto soccorso. Notandomi, molto dolcemente – ironico ancora una volta – mi saluta con un bel “alla fine è riuscito a farsi ricoverare.” Il tutto accompagnato da un’espressione di dissenso che si è mantenuta sul suo viso fino al momento della visita.
Appoggiando le sue mani sul mio addome, le ho ripetuto che non mentivo e che non ero io a contrarlo. “Le credo!” mi ha risposto cambiando espressione e assumendone una preoccupata che ha allarmato anche me. “La mando a fare una rx, ma pretenda che gliela facciano in piedi altrimenti non si vede un kaizer.” – cito fedelmente -.

Nel giro di un niente mi sono ritrovato a fare una radiografia. Poi una tac. Mi è stato e inserito un tubo naso-gastrico. Sono stato trasferito in chirurgia generale. Mi hanno comunicato che sarei stato operato d’urgenza per un’ulcera perforata divenuta peritonite. Alle tredici sono entrato in sala operatoria. Ne sono uscito alle diciannove. L’intervento è andato bene. Avevo tubi che uscivano dal naso, dall'addome, dal pene e un epidurale dietro alla schiena che mi impediva di avvertire dolore.

Dopo sette giorni i tubi erano diminuiti e sembrava che tutto si stesse risolvendo, ma ecco che si presenta la prima complicazione post operatoria. Era nuovamente un venerdì e avvertivo la difficoltà a respirare. Ogni volta che aspiravo più affondo avvertivo un dolore nel lato sinistro del mio petto. Non so nemmeno io a quante persone l’avrò detto, ma tutti continuavano a rispondere “è per via della posizione.” In quei giorni ho scoperto che lo stare disteso a letto non è proprio così salutare...
La sera di quello stesso giorno, però, la situazione non era cambiata, anzi. Era peggiorata. Se oggi sono qui a scrivervi è solo grazie all'intervento di un’infermiera, Letizia, che quella notte si è fatta mia portavoce e ha fatto sì che si scavasse a fondo e che i medici si accorgessero che non era colpa della posizione, ma di un versamento pleurico di circa 8 centimetri formatosi fra il polmone e il fegato.

Passano altri sette giorni e senza nemmeno un ulteriore controllo, i medici mi mandano a casa. “L’incubo è finito” ho pensato, ma in realtà era solo l’inizio del mio inferno…

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